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Data: 18 d'abril de 2023
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Santi di Tito (1536-1603), Retrat de Niccolò Machiavelli, c. 1575-1599 (Florència, Museo di Palazzo Vecchio). Més informació: Catalogo generale dei Beni Culturali

Aquest famós capítol d’Il principe de Maquiavel (Niccolò Machiavelli, 1469-1527) ha estat la base de la interpretació de la figura de Cèsar Borja durant segles. Al llarg de l’edat moderna, la consideració sobre el personatge anirà lligada a la del pensament polític del secretari florentí tal com es manifesta en el Príncep, encara que, de fet, l’opinió maquiavel·liana sobre el Valentino varia en les seves obres segons el paper que Cèsar juga en la política de Florència.

Font: Niccolò Machiavelli, Il principe, a cura de Mario Martelli i Nicoletta Marcelli, Roma: Salerno Editrice, 2006 (Edizione nazionale delle opere, I/1), p. 123-149 (cap. 7); reproduït dins Jon Arrizabalaga; Álvaro Fernández de Córdova; Maria Toldrà, Cèsar Borja cinc-cents anys després (1507-2007). Tres estudis i una antologia, València: Tres i Quatre; IIEB, 2009 (Biblioteca Borja Minor, 2), p. 428-437.

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De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur.

Coloro e’quali solamente per fortuna diventano di privati principi con poca fatica diventano, ma con assai si mantengano, e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano, ma tutte le difficultà nascono quando sono posti. E questi tali sono quando è concesso a alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi lo concede, come intervenne a molti in Grecia nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furono fatti principi da Dario a ciò le tenessino per sua sicurtà e gloria, come erano fatti ancora quelli imperadori che di privati per corruzione de’ soldati pervenivano alla corona dello imperio. Questi stanno semplicemente in sulla voluntà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime e instabili, e non sanno e non possono tenere quel grado: non sanno, perché, se non è uomo di grande ingegno e virtú, non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna, sappi comandare; non possano, perché non hanno forze che li possino essere amiche e fedeli; dipoi li stati che vengano subito, come tutte l’altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e correspondenzie loro, in modo che el primo tempo avverso non le spenga, se già quelli tali, come è ditto, che sí de repente sono diventati principi, non sono di tanta virtú che quello che la fortuna ha messo loro in grembo e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti che li altri hanno fatto avanti che diventino principi, li faccino poi.

Io voglio all’uno e all’altro di questi modi detti, circa el diventare principe per virtú o per fortuna addurre dua essempli stati ne’ dí della memoria nostra; e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e con una sua gran virtú, di privato diventò duca di Milano, e quello che con mille affanni aveva acquistato con poca fatica mantenne. Dall’altra parte, Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdé, nonostante che per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe sua in quelli stati, che l’arme e fortuna di altri li aveva concessi: perché, come di sopra si disse, chi non fa e’ fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtú fare poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo dello edifizio.

Se adunque si considerrà tutti e’ progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenzia: li quali non iudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo che lo essemplo delle azioni sua; e se li ordini sua non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria e estrema malignità di fortuna. Aveva Alessandro VI, nel volere fare grande el duca suo figliuolo, assai dificultà presenti e future. Prima, non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa; e volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva che el duca di Milano e Viniziani non gnene consentirebbano, perché Faenza e Rimino erano digià sotto la protezione de’Viniziani. Vedeva oltre a questo l’arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi possuto servire essere in le mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa, e però non se ne poteva fidare, sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro complici. Era adunque necessario si turbassinno quelli ordini e disordinare li stati di Italia, per potersi insignorire securamente di parte di quelli. Il che li fu facile, perché trovò Viniziani che, mossi da altre cagioni, si erono volti a fare ripassare Franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ piú facile con la resoluzione del matrimonio antiquo del re Luigi.

Passò adunque il re in Italia con lo adiuto de’Viniziani e consenso di Alessandro; né prima fu in Milano che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna, la quale li fu consentita per la reputazione del re. Acquistata adunque il duca la Romagna e sbattuti e’ Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere piú avanti, lo ’mpedivano due cose: l’una, l’arme sua che non li parevano fedeli, l’altra, la voluntà di Francia, cioè che l’arme orsine, delle quali s’era valuto, li mancassino sotto e non solamente li ’mpedissino lo acquistare, ma gli togliessino l’acquistato; e che il re ancora non li facessi el simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro, quando, dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che li vidde andare freddi in quello assalto; e circa el re, conobbe l’animo suo, quando, preso el ducato di Urbino, assaltò la Toscana; dalla quale impresa el re lo fece desistere. Onde che il duca deliberò non dependere piú dalle arme e fortuna d’altri. E, la prima cosa, indebolí le parti Orsine e Colonnese in Roma, perché tutti li aderenti loro che fussino gentili òmini, se li guadagnò faccendoli sua gentili òmini, e, dando loro grandi provisioni, e onorogli secondo le qualità loro di condotte e di governi, in modo che in pochi mesi nelli animi loro la affezione delle parti si spense e tutta si volse nel duca. Dopo questo, aspettò la occasione di spegnere li Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale li venne bene, e lui l’usò meglio. Perché, avvedutisi li Orsini tardi che la grandezza del duca e della Chiesa era la ruina loro, feciono una dieta alla Magione nel Perugino: da quella nacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca, li quali tutti superò con lo aiuto de’ Franzesi. E ritornatoli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsini, mediante el signor Paulo, si riconciliorono seco: con il quale el duca non mancò d’ogni ragione di officio per assicurarlo, dandoli danari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse a Sinigallia nelle sua mani.

Spenti adunque questi capi e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendoli massime aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli populi per avere cominciato a gustare el bene essere loro. E perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio lasciare indrieto. Preso che ebbe el duca la Romagna e trovandola suta comandata da signori impotenti, li quali piú presto avevano spogliato e’ loro sudditi che correttoli e dato loro materia di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo: però vi prepose messer Remirro de Orco, omo crudele e espedito, al quale dette plenissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Dipoi iudicò el Duca non essere necessario sí escessiva auttorità, perché dubitava non divenissi odiosa, e proposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia con uno presidente escellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate avergli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopra a questo occasione, lo fece una mattina mettere a Cesena in dua pezzi in sulla piazza con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso accanto: la ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.

Ma torniamo donde noi partimo. Dico che, trovandosi el duca assai potente e in parte assicurato de’ presenti periculi per essersi armato a suo modo e avere in buona parte spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, li restava, volendo procedere con lo acquisto, el respetto del re di Francia, perché conosceva come dal re, il quale tardi s’era accorto dello errore suo, non li sarebbe sopportato. E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove e vacillare con Francia nella venuta che feciono Franzesi verso el regno di Napoli contro alli Spagnoli che assediavono Gaeta; e l’animo suo era assicurarsi di loro: il che li sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva.

E questi furono e’ governi sua quanto alle cose presenti. Ma, quanto alle future, lui aveva a dubitare in prima che un nuovo successore alla Chiesa non li fussi amico e cercassi torli quello che Alessandro li aveva dato. Di che pensò assicurarsi; e pensò farlo in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’ sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e’ gentili òmini di Roma come è ditto, per potere con quelli tenere el papa in freno; terzio, ridurre el collegio piú suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro, ne aveva condotte tre, la quarta aveva quasi per condotta: perché de’ signori spogliati, ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere, e pochissimi si salvorono; e’ gentili òmini romani si aveva guadagnati; e nel collegio aveva grandissima parte; e quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana, e possedeva digià Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione; e come non avessi avuto a avere respetto a Francia –che non gnene avea a avere piú per essere digià Franzesi spogliati del Regno dalli Spagnuoli, di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua–, e’ saltava in Pisa; dopo questo, Lucca e Siena bisognava che cedessino subito, parte per invidia di Fiorentini, parte per paura; Fiorentini non avevano remedio. Il che se li fussi riuscito, che li riusciva l’anno medesimo che Alessandro morí, si acquistava tante forze e tanta reputazione che per se stesso si sarebbe retto e non sarebbe piú dependuto da la fortuna e forze d’altri, ma dalla potenzia e virtú sua.

Ma Alessandro morí dopo cinque anni che elli aveva cominciato a trarre fuora la spada, lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti li altri in aria, in fra dua potentissimi esserciti inimici, e malato a morte. E era nel duca tanta ferocia e tanta virtú, e sí bene conosceva come li òmini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sí poco tempo si aveva fatti, che se non avessi avuto quelli esserciti addosso o fussi stato sano, arebbe retto a ogni dificultà. E ch’e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde che la Romagna l’aspettò piú d’un mese; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro; e, benché Ballioni,Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono séguito contro di lui; possé fare, se non chi e’ volle, papa, almeno che non fussi chi non voleva. Ma se nella morte di Alessandro fussi stato sano, ogni cosa li era facile; e lui mi disse, ne’ dí che fu creato Iulio secondo, che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo el padre e a tutto aveva trovato remedio, escetto che non pensò mai in su la sua morte di stare ancora lui per morire.

Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei repreenderlo, anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’arme d’altri sono ascesi allo imperio; perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti, e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi adunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de’ nimici, guadagnarsi delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e reverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi li ordini antichi, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenere l’amicizie de’ re e de’ principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o offendere con respetto, non può trovare e’ piú freschi essempli che le azioni di costui.

Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio, nella quale lui ebbe mala elezione; perché, come è ditto, non possendo fare uno papa a suo modo, poteva tenere che uno non fossi papa, e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali che lui avessi offesi o che, diventati papi, avessino a avere paura di lui: perché li òmini offendono o per paura o per odio. Quelli che lui aveva offesi erano, infra li altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio: tutti li altri, divenuti papa, aveano a temerlo, eccetto Roano e li spagnuoli, questi per coniunzione e obligo, quello per potenzia, avendo coniunto seco el regno di Francia. Pertanto el duca, inanzi a ogni cosa, doveva creare papa uno spagnolo e, non potendo, doveva consentire che fussi Roano e non San Piero ad Vincula: e chi crede che ne’ personaggi grandi e’ benefizi nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s’inganna.

Errò adunque el duca in questa elezione e fu cagione dell’ultima ruina sua.

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