La corrispondenza cifrata tra Lucrezia Borgia e Alfonso I d’Este viene svelata dopo mezzo millennio a beneficio della ricerca storica sulla loro figura che ne esce rivalutata.
Il valore dell’informazione, i sistemi raffinati per proteggerla, i metodi e le intuizioni per scoprirla: è quanto si ritrova come un caso paradigmatico nelle due lettere cifrate che si scambiano nel 1510 i coniugi che governano il ducato di Ferrara, Modena e Reggio in un quindicennio cruciale per la storia europea e mediterranea, vale a dire il periodo che va dal 1505 al 1519. La decifrazione completa delle due missive, gli intriganti aspetti paleografici e criptografici con cui sono codificate, le caratteristiche linguistiche attese e in esse rinvenute (insieme a un rarissimo francesismo) sono stati estesamente descritti e riportati in due contributi a una rivista specialistica online;[1] in questa sede si approfondiranno gli aspetti più propriamente storici che risaltano dal loro contenuto, in relazione al contesto in cui maturano gli eventi bellici in esse narrati.
Lucrezia Borgia va sposa al futuro duca Alfonso I d’Este nel 1502, quando entrambe le famiglie d’origine sono saldamente insediate nei rispettivi ambiti di potere; poi, a distanza di pochi anni, nel 1509, dopo la morte di Alessandro VI, di Ercole I d’Este e di Cesare Borgia, si determina una situazione bellica mutevole che a un certo punto mette in pericolo l’esistenza stessa del ducato estense.
La guerra era nata a seguito di un insieme di alleanze fra molte potenze italiane ed europee che va sotto il nome di Lega di Cambrai, del 1508. Siamo nel periodo in cui, anche se i contemporanei forse non se ne avvidero, la potenza della repubblica di Venezia tocca l’apice per poi iniziare un lento declino che durerà quasi tre secoli. Ancora non si avvertivano gli effetti della recente scoperta dell’America, ma si sentivano da tempo quelli della conquista ottomana di tutto l’Oriente mediterraneo. Quella che poi sarà la Serenissima per antonomasia cercava da tempo di consolidare ed espandere i suoi domini nella terraferma italiana e balcanica, quasi a compensare la riduzione degli scali commerciali nel Mediterraneo orientale. Già nella prima metà del ‘400 Venezia aveva strappato Bergamo e Brescia al ducato di Milano; ora, approfittando del fatto che il dominio sforzesco era stato acquisito dal re di Francia, la repubblica veneta cercava di ritornare sul Po da occidente, avanzando nella Bassa cremonese, aggirando il piccolo marchesato di Mantova e premendo da un altro lato sul ducato estense. Agli Este aveva tolto nel 1484 il Polesine con Rovigo, aveva acquisito Ravenna nello stato pontificio, e aveva anche l’ardire di contendere il Cadore agli Asburgo, avviati a diventare stabilmente imperatori nell’Europa centrale e re nella penisola iberica per diversi secoli.
In questo modo, però, Venezia aveva irritato un po’ tutti i confinanti nel territorio italiano, per non parlare dei secolari nemici all’estero, quali il potente regno d’Ungheria e l’impero turco. Quanto bastava perché in tanti si trovassero d’accordo nel cercare di riavere il maltolto. Così, dopo un anno, nella battaglia di Agnadello, il 14 maggio del 1509 Venezia subì una sconfitta che può considerarsi uno spartiacque nella sua storia. Forse non gravissima militarmente, la giornata di Agnadello rischiò di avere effetti catastrofici: i nemici avanzarono da ogni dove ed arrivarono ad affacciarsi in Laguna.
A questo punto si verificò il più classico dei colpi di scena o dei voltafaccia: il papa guerriero Giulio II, riavuto il suo, si defilò dalla Lega di Cambrai e si schierò con i veneziani, determinando così l’accerchiamento proprio del ducato estense. Il titolo di gonfaloniere di Santa Romana Chiesa fu tolto ad Alfonso d’Este ed assegnato a Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, di fatto costretto a schierarsi con Venezia e col papa. Questi provvide anche a scomunicare Alfonso, non per motivi religiosi ovviamente, consentendogli di inaugurare la collezione di tre scomuniche comminate da tre papi diversi: una sorta di primato difficilmente eguagliabile, e quasi un contrappasso per uno che era stato fortemente voluto come genero da un loro predecessore.
Nell’estate del 1510 la situazione del ducato estense si faceva sempre più difficile: siccome si temeva che l’attacco concentrico dei nemici si stringesse intorno al ducato, chiudendo ogni via di comunicazione con l’esterno, a Ferrara si pensava di mettere al sicuro i figlioletti di Alfonso e Lucrezia, prima che potessero essere presi in ostaggio. Questo era accaduto, infatti, al figlio di Francesco Gonzaga, portato a Roma da Giulio II per garantirsi la fedeltà del marchese di Mantova, costretto a capeggiare le truppe venete e pontificie seguendo il voltafaccia del papa. Ma gli Este avevano potuto allontanare dal ducato solo il secondogenito di un anno, perché il primogenito, di due, era stato in condizioni di salute precarie tanto che la famiglia non si era spostata da Ferrara nemmeno per raggiungere le “delizie”, i luoghi di villeggiatura vicini alla città.
In queste condizioni, mentre il duca Alfonso recuperava la città di Cento, dote di Lucrezia, riceve la lettera in tempi rapidissimi, come auspicato dalla moglie, “per stafeta” e in accordo con quanto raccomandato sul retro del foglio: “cito”, cioè ‘presto’, ripetuto quattro volte. Lucrezia riferisce che la “Stelata è persa” e che le galee non sono “sure”, cioè ‘sicure’; lo fa in modo scarno, senza infiorare il suo racconto di combattimenti eroici o di crudeltà da parte del nemico. Il duca risponde da Mirandola poche ore dopo e si dichiara pronto a contrastare i nemici per impedirgli di tagliare in due i propri domini.
Le parole e le espressioni della risposta appaiono virili e vigorose: Alfonso era particolarmente competente nella costruzione delle nuove armi da fuoco, e nella battaglia fluviale della Polesella aveva dimostrato, insieme con il fratello cardinale Ippolito, di avere anche grande acume tattico, colpendo e catturando le navi veneziane portate in alto dall’attesa piena del grande fiume. È vero che il suo ducato era quasi circondato e in parte invaso dai nemici, ma sapeva di poter contare sui potenti alleati francesi per contrastare le varie potenze confinanti. La forte determinazione del duca è quello che ci vuole per rassicurare una giovane donna con due bambini piccolissimi e di salute malferma, i superstiti di una lunga serie di gravidanze talvolta nemmeno arrivate a termine.
Come si può notare anche dalla seconda parte della risposta, emerge nettamente la piena collaborazione tra i due coniugi nel governo del ducato estense, con Alfonso che delega alla discrezione di Lucrezia la scelta della migliore soluzione, ad esempio, per mantenere la concordia tra alcuni collaboratori. Questi comportamenti, che scaturiscono da una forte intesa, sono tanto più illuminanti in quanto si rilevano da lettere destinate a rimanere segrete e, quindi, verosimilmente improntate alla più grande schiettezza.
Nell’incipiente autunno del 1510 la Casa d’Este vive il momento più drammatico della propria vicenda millenaria, dei quattro secoli precedenti e anche di quelli [tre e mezzo] a venire, se si esclude la meteora napoleonica. Su questo snodo cruciale – che mette in pericolo la signoria estense, recentemente assurta alla dignità ducale, sulla Bassa padana orientale – tace la storiografia successiva, forse per il diradarsi delle fonti diplomatiche coeve in chiaro. Quanto mai opportuno giunge, quindi, il ritrovamento e lo svelamento di queste due lettere che consentono di colmare il vuoto storiografico su quel momento di crisi nella storia della casata. La decifratura delle due missive fornisce notizie di prima mano che trovano conferma nei Diari di Marin Sanudo, insediato negli organi istituzionali della repubblica di Venezia: la congruità delle notizie fornite dalle due parti in conflitto legittima reciprocamente le fonti contrapposte come obiettive e attendibili nel riferire l’episodio bellico narrato.
Si è aperto questo contributo accennando al valore dell’informazione, ai modi per trasmetterla, alla gara che dura dagli albori della storia (che nasce appunto con la scrittura) tra chi vuole riservare il contenuto nascosto nei simboli e chi cerca di conoscerlo ingegnandosi in vario modo; ebbene, questa coppia di lettere cifrate ci trasmette due livelli di notizie o ci parla su due piani informativi. Il primo è quello diretto: è l’istantanea di un evento bellico in divenire, scattata in modo obiettivo da una protagonista che sta nella foto, ma non si mette in posa ufficiale. Non parla per la politica del suo tempo, per la diplomazia o per la storia, ma comunica in modo riservato al marito e duca, senza infingimenti; in questo modo si manifesta schiettamente per una donna di governo saggia ed equilibrata, che non si fa prendere dal panico, nonostante i gravi pericoli che avverte innanzitutto come madre. In modo speculare le risponde il marito e duca, curandosi di parlare innanzitutto alla sposa e alla madre dei suoi figli, ma esibendo anche, o forse proprio a questo scopo, una natura volitiva e determinata a sconfiggere chi sta cercando di distruggere il suo stato e la sua famiglia. È l’istantanea di coppia fedele e affiatata, e c’introduce al secondo piano informativo, quello che delinea il profilo di due persone accorte e responsabili (e Lucrezia ha solo trent’anni). Gli storici a venire per cinque lunghi secoli non conosceranno le informazioni celate in quei simboli, e alcuni tra essi continueranno a schizzare fango, maldicenze che si sono perpetuate in luoghi comuni incontrollati.
Con lo svelamento delle due missive cifrate si spera di aver contribuito a diffondere un’immagine più autentica di questa donna, come un gesto di riparazione, per amore della verità e per un senso di giustizia nei suoi confronti.
Nota
[1] Daniele PALMA; Giuseppe PALMA; Maria Veronica PALMA, “La lettera svelata di Lucrezia Borgia: analisi del sistema criptografico nel documento conservato in ASMo”, Quaderni Estensi, 5 (2013), p. 510-524; idem, “La risposta alfonsina nel codice di Lucrezia”, Quaderni Estensi, 6 (2014), p. 414-433.