L’arte della crittografia, ovvero l’arte di nascondere i messaggi a terzi, è antica quanto l’uomo. Tutte le civiltà ad un certo punto dell’evoluzione del proprio linguaggio si sono dotate di sistemi crittografici che hanno usato per proteggere le loro comunicazioni, soprattutto nei periodi di guerra. Solo con il Rinascimento italiano, tuttavia, quest’arte ebbe un impulso tale che ne favorì l’uso continuo nelle corrispondenze diplomatiche e la sua conoscenza attraverso il fiorire dei primi trattati.
Durante il periodo che va dalla morte di Roberto D’Angiò (1343) all’ascesa al trono di Napoli di Alfonso il Magnanimo (1442), la continua conflittualità tra gli stati regionali italiani, il fiorire degli scambi commerciali e lo sviluppo dei rapporti diplomatici, con la creazione delle prime ambasciate permanenti all’estero, furono le cause della rinascita dell’interesse per i sistemi delle scritture cifrate proprio nella penisola italiana.
È in questo periodo, difatti, che proteggere i propri messaggi e al tempo stesso intercettare e decrittare quelli del nemico diventa un’imprescindibile necessità per le diverse cancellerie europee e, tra queste, ovviamente quella pontificia.
Nei primi decenni del XV secolo la Chiesa era stata profondamente scossa da un turbolento susseguirsi di papi e antipapi, ben tre in pochi anni, e di concili lunghi e sostanzialmente inutili. Solo con il concilio di Firenze, conclusosi nel 1439, la sede pontificia ritrovò pace e unità al proprio interno.
L’utilizzo della crittografia da parte dei segretari pontifici risale con certezza a questi anni, quando la curia romana si dotò di cifrari che possedevano già tutte le principali caratteristiche del cosiddetto metodo di sostituzione monoalfabetica, cioè di quello che sarebbe diventato in seguito di gran lunga il sistema crittografico più utilizzato nelle corrispondenze diplomatiche di tutti i paesi europei fino al XVIII secolo inoltrato.
Questo sistema era costituito da un alfabeto cifrante e da un repertorio di nomi detto anche «nomenclatore». L’alfabeto cifrante era composto da cifre che sostituivano ognuna una lettera del testo in chiaro, alcune cifre nulle, introdotte nel crittogramma solo per rendere più difficile la decrittazione in caso di intercettazione, e numerose cifre omofone, cioè più cifre che sostituivano la stessa lettera, introdotte, molto probabilmente, quando ormai erano noti i principi della crittoanalisi, ovvero l’insieme delle tecniche utilizzate per decrittare i testi cifrati senza la previa conoscenza del cifrario.
Il nomenclatore, d’altra parte, era composto da una lista di nomi, parole o sillabe, disposte come in un codice e spesso in ordine alfabetico, che venivano cifrate con segni di fantasia, numeri o gruppi cifranti di due o più lettere. Il suo uso era determinato dalla necessità di accorciare il testo cifrato e introdurre ulteriori fattori di difficoltà per i malintenzionati. In tal senso, particolare importanza nella preparazione dei crittogrammi veniva data anche alla scriptio continua, cioè alla scrittura del testo cifrato senza lasciare spazi tra le parole, e alle prescrizioni per la preparazione del testo in chiaro che doveva essere cifrato: si consigliava, ad esempio, di abbreviarlo senza osservare l’ortografia, soprattutto non rispettando le doppie, una particolarità della lingua italiana facilmente riscontrabile.
Tutto ciò, insieme alla descrizione delle tecniche di crittoanalisi basate sullo studio delle frequenze delle lettere del testo in chiaro e dei segni cifranti, fu oggetto del più antico trattato sulla crittografia, intitolato De Componendis Cyfris, ad opera di Leon Battista Alberti.
A seguito di una discussione avuta proprio nei giardini vaticani con Leonardo Dati, allora segretario apostolico di papa Paolo II, che lo invitava a studiare i sistemi crittografici, il geniale architetto realizzò quest’operetta che circolò per lungo tempo in forma manoscritta fino a quando fu pubblicata nel 1568.
È tuttavia con il pontificato di Leone X (1513-1521) che la corrispondenza pontificia in cifra si sviluppò al punto tale da richiedere l’istituzione di un apposito ufficio. Un Giovanni ciferator si trova menzionato nei ruoli di Pio II (1458-1464), ma il primo segretario ufficiale della cifra sembra sia stato Trifone Bencio, la cui attività è attestata tra il 1555 e il 1570. In seguito, la cifra divenne soprattutto una questione di famiglia, nel senso che l’incarico passò di padre in figlio per l’ovvia maggior sicurezza nella trasmissione dei cifrari, che spesso venivano anche riutilizzati a distanza di tempo con destinatari diversi. Tra queste, quella degli Argenti fu la più famosa: a Giambattista Argenti, successe il nipote Matteo. Entrambi scrissero trattati di crittografia e collezionarono documenti in cifra e cifrari della loro epoca.
Callisto III e il Litterarum simulationis liber
L’interesse della famiglia Borgia per la crittografia risale al tempo di papa Callisto III, quando un certo Michele Zopello, originario della città di Sacile nel Veneto e segretario del duca Luigi di Savoia dal 1450, gli dedicò una sua operetta in latino intitolata Litterarum simulationis liber, oggi conservata nella collezione Schoenberg della biblioteca dell’University of Pennsylvania (la digitalizzazione integrale del testo, composto di soli 20 fogli, è consultabile al seguente link).
Come è ben noto, Callisto III durante tutto il suo breve pontificato fu preoccupato soprattutto dalla necessità di contrastare l’avanzata turca ottomana nel Mediterraneo, chiedendo ripetutamente ai potenti del tempo di organizzare una nuova crociata sulla scia della caduta di Costantinopoli. É probabile quindi che avesse commissionato a Zopello l’opera per comunicare con loro attraverso l’uso delle cifre.
Zopello presenta due metodi relativamente semplici per crittografare il testo di una lettera. Nel primo, le parole che iniziano con una determinata lettera sono semplicemente sostituite da una delle due parole corrispondenti che iniziano con un’altra lettera (ff. 5v-14r). Di questo sistema il segretario fornisce anche due lettere-campione criptate per dimostrare il suo metodo in azione (ff. 14v-19r).
Il secondo, è quello di sostituzione monoalfabetica appena descritto, con un alfabeto cifrante con cifre omofone (sei possibilità per le vocali, tre per le consonanti) e un nomenclatore che cifra i nomi di persona e i toponimi (ff. 19v-20r).
I cifrari al tempo di Alessandro VI
Del pontificato di Alessandro VI possediamo due cifrari rinvenuti nel fondo dell’ Archivum Arcis presso l’Archivio Apostolico Vaticano insieme alla corrispondenza in cifra di Francesc Desprats, nunzio apostolico in Spagna.
Il primo cifrario (AAV, A.A., Arm. I-XVIII, 5026, ff. 101r-101v), di cui non conosciamo l’utilizzatore e il destinatario, è composto da un alfabeto cifrante con cifre omofone, un elenco delle parole più frequentemente usate nel testo in chiaro sostituite con cifre di fantasia e da un nomenclatore, disposto su tre colonne, con nomi di persone e toponimi sostituiti nella prima, da numeri, e nella seconda e terza, da sillabe.
Il secondo cifrario (AAV, A.A., Arm. I-XVIII, 5026, ff. 102r-103v) non è datato ma è probabile che sia del 1493 o 1494 perché riguarda, come scritto nel verso, le comunicazioni tra la curia romana e il duca di Calabria.
Si tratta anche qui del già descritto metodo di sostituzione monoalfabetica, composto da un alfabeto cifrante di sostituzione con elementi omofoni, in cui sono presenti anche delle cifre per sostituire le lettere doppie e delle cifre nulle, e un nomenclatore con cifre letterali e numerali.
Il nunzio Desprats
Francesc Desprats, nato a Orihuela nel 1454, fu canonico del capitolo della stessa città e in seguito protonotario apostolico. Nel 1483 giunse a Roma al seguito del cardinale Rodrigo Borgia, da cui fu eletto vescovo di Catania il 14 febbraio del 1498. Il 9 febbraio del 1500 fu trasferito alla sede di Astorga, ed ancora il 4 dicembre dello stesso anno a quella di León, di cui prese possesso il 5 febbraio dell’anno seguente. Fu nominato cardinale da Alessandro VI nel concistoro del 31 maggio 1503. Partecipò ai due conclavi tenutisi in quell’anno che elessero i pontefici Pio III e Giulio II. Ma la sua importanza storica è legata soprattutto alla nunziatura apostolica permanente presso la corona di Spagna, prestigioso incarico che ricoprì dal 1492 e per cui è considerato il primo nunzio permanente dell’età moderna. Morì il 10 settembre 1504 a Roma e venne sepolto nella chiesa di San Salvatore in Lauro nel mausoleo fatto costruire dai suoi esecutori testamentari: i cardinali Joan de Vera e Francesc Lloris i de Borja. Molte altre notizie inedite su di lui sono reperibili nel Db. Documentació borgiana de l’Arxiu Apostòlic Vaticà.
La sua corrispondenza con Alessandro VI è custodita nell’Archivum Arcis (Arm. I-XVIII, 5023 e 5026), dove sono conservate anche due sue lettere in cifra realizzate entrambe con lo stesso cifrario, ma diverso dai due descritti in precedenza. La prima (AAV, A.A. Arm. I-XVIII, 5026, ff. 104r-105v), indirizzata ad Alessandro VI, si trova trascritta nell’Epistolari català dels Borja, a cura de Miquel Batllori, Joan Requesens i Maria Toldrà, València: Edicions Tres i Quatre; Institut Internacional d’Estudis Borgians, 2017 (Biblioteca Borja, 7), come la lettera n. 94.
Il testo in cifra della seconda lettera del nunzio (AAV, A.A., Arm. I-XVIII, 5023, ff. 59r- 60v) è anch’esso trascritto nell’Epistolari català dels Borja come la lettera n. 112.
Il cifrario utilizzato da Desprats è molto più semplice di quelli descritti finora e, a quel tempo, più frequentemente utilizzati nelle corrispondenze diplomatiche di tutti i regni europei: si compone, infatti, del solo alfabeto cifrante.
Perché questa semplificazione? Una spiegazione potrebbe essere costituita dal fatto che le due lettere in questione, come tutta la corrispondenza tra Alessandro VI e il suo nunzio, erano state scritta in lingua catalana, che sebbene fosse ampiamente diffusa a quel tempo sia a Roma che a Napoli per la numerosa presenza di spagnoli giunti in Italia al seguito delle famiglie dei Borgia e degli Aragona, era tuttavia poco considerata nel resto dell’Europa, costituendo quindi di per sé già un valore crittografico.